lunedì 28 maggio 2012

"Dark Shadows": quando Tim Burton racconta (un po' male) Tim Burton

Nella foto, T. Burton
Nella mia lunga stirpe familiare di nonni, trisavoli e padri putativi del cinema, non può certamente mancare il mio fratello molto (molto!) maggiore: Tim Burton. Dopo avergli dedicato una tesi di laurea triennale - indagando in due suoi film (Edward mani di forbici e Big Fish) l'evoluzione del concetto di fantastico e realistico - ho iniziato a mutuare nei suoi confronti un rapporto conflittuale. Odi et amo, Passione/Ragione, Delusione/Speranza: binomi sentimentali che hanno lentamente messo in discussione la mia vorace attenzione al suo cinema, ai suoi film, ai suoi temi.

Perchè?

La risposta è molto semplice: è dal 2003 (anno di uscita di Big Fish, con una piccola flessione in positivo nel 2005, anno di La Sposa Cadavere) che Tim Burton non ne imbrocca una! Tralasciando la mia personale amarezza dopo aver visto quello scempio chiamato Alice in Wonderland - su cui le aspettative erano alte, altissime, ma aprirò una parentesi adeguata in un altro contesto - è da quasi 10 anni che il regista di Burbank non sforna una pellicola degna e meritevole della sua firma. E ieri sera, dopo aver a lungo patito e supplicato chi mi accompagnava, ho deciso di concedere al mio amato regista un'altra chance, andando a vedere Dark Shadows

Nella foto, il cast di Dark Shadows
Già, Dark Shadows. Nuovo conflitto interiore, nuova presa di coscienza. E da qui un'analisi, accecata soprattutto dall' "affetto", ma che andava fatta. D'accordo, procediamo con ordine. Passo uno. A Burton piace vincere facile. Schiera in pole position l'artiglieria pesante, quella con i suoi volti più noti: Johnny Depp, Sir Christopher Lee, Helena Bonham Carter, Michelle Pfeiffer. Un punto a favore. Passo due. Una fotografia ineccepibile, con un ritorno alla perfetta dicotomia tra colori kitsch e colori dark. Gioia e tripudio. Secondo punto a favore. Passo tre. Una colonna sonora degna di un qualsiasi (buon) film di Tim Burton: parlo, ovviamente, di quella non originale - questa volta con un'incursione piacevole agli anni '70, lasciando per una volta in un angolo Tom Jones e i '60s - perchè oramai il buon Danny Elfman ha canonizzato e cristallizzato il suo stile, creando un terribile effetto deja-vù. Ci ha un po' rotto le palle, detto più casereccio. Si retrocede di una posizione. Passo quattro. La sostanza, la "ciccia". La storia, insomma. Ok, respiro profondo e via di getto. Ehhhh, la storia, la storia. Si apre una parentesi pruriginosa, fastidiosa, quella di un'analisi di un modus operandi in voga tra alcuni registi contemporanei. Già! Quando si è a corto di idee brillanti e di una sceneggiatura forte - per quanto, in questo film, siano stati scomodati per l'occasione John August, sceneggiatore di Big Fish (!), e lo scrittore Seth Grahame-Smith - l'unica soluzione è citare (qui un esempio è La morte ti fa bella, ma la lista è lunga) e, ancor peggio, auto-citarsi

Ma parliamo in particolare di quest'ultima opzione, una moda portata avanti, come dicevo, anche da altri autori, come Quentin Tarantino - pensiamo a Death Proof e rabbrividiamo, giusto un po'. Anche Tim Burton, e questo lo dico con il cuore un po' infranto, è caduto in questa trappola inesorabile, rendendo Dark Shadows (già di suo reimpastamento di una soap opera degli anni Sessanta) una personale di vecchie glorie e successi del passato. Potrei citarvi giusto qualche film, in ordine sparso: Edward mani di forbici (il castello, la folla indemoniata che si accalca, il personaggio di Angelique Bouchard, molto simile alla ninfomane Joyce Monroe, e il personaggio di Victoria Winters, che un po' riecheggia quello di Kim e che guarda caso si chiama Victoria - nome di un personaggio di La Sposa Cadavere - le scene dei pasteggi familiari), Alice in Wonderland (ma Helena Bonham Carter va ancora in giro con il trucco della Regina Rossa?), Beetle Juice - Spiritello Porcello (Barnabas è una versione edulcorata e british di Betelgeuse, il personaggio invasato di Carolyne è una versione reimpastata in chiave '70s di Lydia Deetz...però, lo ammetto, speravo che Dark Shadows recuperasse buona parte del suo essere così goduriosamente kitsch!), Sweeney Todd (l'inizio del film è spaventosamente IDENTICO), ecc.

Vivere sulla gloria del passato, raccontare il passato, scopiazzare dal proprio stesso passato. Scelta peggiore, visto che lo scopo non è quello di solleticare l'appassionato del tuo cinema, quanto piuttosto colmare (quando si riesce) evidenti buchi narrativi che altrimenti non troverebbero via d'uscita. E qui l'annullamento dei voti positivi precedenti.

Per quanto Dark Shadows non sia un film così inguardabile - ha dei suoi momenti comici e sottili molto gustosi - il dilemma rimane: Tim Burton è un genio, attualmente in standby, o ci ha preso un po' tutti per il culo? Preferisco non sbilanciarmi, impacchetto e torno a casa.
...e aspettare speranzosa come Penelope, tessendo e disfacendo la tela.
Come da 10 anni a questa parte.

lunedì 14 maggio 2012

Quando una locandina racconta la storia del Festival del Cinema per eccellenza...

Locandina di Cannes 65 con omaggio a Marilyn Monroe

65 edizioni e non dimostrarle. Meno due giorni all'inizio del Festival per eccellenza, sulla croisette. 
Can't wait anymore!

"Hunger Games": Quando un film SCOPIAZZA altre storie...

Nella foto, Hunger Games di G. Ross (2012)
Odio fare la saccente. E odio ancora di più guardare film che mi trasformano in una maledetta maestrina con la penna rossa. Chiamatela, se volete, deformazione professionale o spocchia, molto spesso le due cose si equivalgono. Bene, non avendo alcuna intenzione di spendere una lira (...o euro, checchesidica) per vederlo al cinema, ho deciso di guardare in modo alternativo l'attesissimo Hunger Games di Gary Ross che questa volta non è Hunger di Steve McQueen, con Michael Fassbender.

Tralasciando la noia mortale che attraversa le quasi due ore abbondanti di pellicola - ma questo, si sa, sta diventando un vezzo stilistico di molti registi: quando non si sa più cosa raccontare, si allunga il brodo...un po' come si faceva alle elementari - quello che mi ha lasciato estremamente perplessa è l'incredibile mancanza di originalità nella trama. Un film - così acclamato e osannato negli States - che si rivela la scopiazzata di un passato lontano e vicino, narrativamente parlando. Posso citarvi almeno due racconti, completamente differenti tra loro, da cui la scrittrice Suzanne Collins ha attinto senza ritegno (magari in buona fede...o semplicemente perchè a corto di idee?):


  • i 7 fanciulli e le 7 fanciulle inviati da Atene e mandati in sacrificio al Minotauro, figlio del re di Creta Minosse, come tributo di sottomissione per aver perso la guerra (prendete un qualsiasi dizionario di mitologia e ne troverete riscontro)
  • il manga giapponese, a firma di Koushun Takami e del mangaka Masayuki Taguchi, Battle Royale (prima edizione: anno 2000): 21 ragazzi e 21 ragazze di terza media, scelti a sorteggio, vengono mandati ogni anno su un'isola per partecipare al cosiddetto Programma, una sfida all'ultimo sangue dove solo uccidendosi l'uno con l'altro, con le armi e i mezzi meno ortodossi, verrà proclamato un vincitore.

Nella foto, un'immagine tratta dal manga Battle Royale (2000)
Ecco, diciamo che la Collins non riesce a farla franca con chi ha un minimo di esperienza con la mitologia greca ed una passione sfegatata per i manga giapponesi. C'è chi parla anche di un retrogusto fantascientifico alla Rollerball, che effettivamente è impossibile non citare, eccetera eccetera. E poi questa condanna al reality show estremo, che fa molto anni Duemila e che oramai non attacca più. Condannare il voyeurismo (anche estremo) da reality, in cui il cinema passa per il medium critico nei confronti della tv dannata e cattiva (anche qui, cos'ha di così diverso dalla vita vissuta da Truman Burbank in The Truman Show? La violenza fisica? Capirai, quest'uomo ha vissuto la sua intera esistenza in modo fittizio, con rapporti di plastica e relazioni basate su uno storyboard...più violenza meschina di questa!), ripeto, sa di vecchio e stantio. Se Hunger Games fosse arrivato con 12 anni di anticipo, avremmo sicuramente gridato al miracolo. Qui, al massimo, ti viene l'ulcera.

Fase decadente del cinema hollywoodiano? Non voglio essere così estrema, perchè effettivamente ci sono tanti bei prodotti originali che ci lasciano tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, è innegabile che questa corsa al remake e al saccheggio selvaggio di best-seller (molto poco best, a mio avviso) stia annebbiando la mente di molti sceneggiatori, che si crogiolano nel riadattare senza troppi interventi personali racconti già scritti da altri. Lo reimpastano, lo rimescolano (senza particolari interventi, va detto), ci piazzano due effetti speciali o un bel volto e il gioco è fatto.

Diciamo che dalla macchina dei sogni mi aspetto un tantinello in più.



mercoledì 9 maggio 2012

Quando un film racconta La Storia...

Le voyage dans la Lune (bozzetto) di G. Méliès (1902)
Ho anche un tris-tris nonno magico, lo sapevate? E' stato illusionista, prestigiatore, ma soprattutto regista. Il regista, per la precisione. E' stato il papà del cosiddetto Cinema di finzione, mi ha condotto per mano in un mondo che ho conosciuto in stato decisamente avanzato, mentre lui - poco più che trentenne - ne aveva visto gli albori e ha contribuito a farne La Storia. 

Si chiamava George Méliès. Per anni ho pronunciato il suo cognome Meliè, nel mio totale rifiuto verso la lingua francese e convinta che ogni parola di questo idioma, che finisca per la lettera "esse", si tramuti in una parola tronca. Poi ho scoperto che si pronuncia come si legge, ma so che a riguardo c'è una leggera diatriba. Lascio accapigliarsi qualcun altro per me, tanto con o senza esse il senso della sua arte non cambia. 

Ben Kingsley/George Méliès in Hugo Cabret di M. Scorsese (2012)
Qualche mese fa ho visto al cinema un film che raccontava e omaggiava proprio lui, Papà George, dal titolo Hugo Cabret di Martin Scorsese. Un regista, quest'ultimo, davvero poco conosciuto (ironia, ironia, ironia!) e un film di cui si è parlato veramente poco, essendo il primo approccio di Martin al 3D (ironia, ironia, ironia! al quadrato). Ma lasciamo bearsi alla loro analisi i critici, che ancora una volta si sono massacrati a colpi di inchiostro in un turn-over di insulti "Voi non capite niente!", "Scorsese venduto al 3D!", eccetera eccetera eccetera. E che dire, allora? Un film abbastanza scorrevole...certo, se superi la prima ora di pellicola dietro a un moccioso la cui storia fa un baffo persino a quegli sfigati di Oliver Twist e Dolce Remì messi insieme. Ma in realtà la storia di Hugo, si sa, è solo un pretesto per raccontare la storia di un grande. Il Maestro di tutti i grandi registi, e anche un po' di tutti quelli che hanno avuto l'occasione di studiare storia del cinema. Un po' come me, tanti anni fa. E un po' come lo stesso Scorsese, che timidamente compare in un cameo nel film per immortalarsi nella storia di un grande, fotografando Papà George fuori dai suoi studi a Montreuil. Svelando quella che è un po' la magia del cinema: la possibilità di rivivere e prendere parte ad un evento importante, come quella della consacrazione di un Maestro, grazie al potere della macchina da presa, un po' di trucco, la ricostruzione di un set, eccetera. La seconda parte del film è quella che oggettivamente mi ha emozionato. 

Mi ha emozionato perchè mi sono rivista studentella di 18 anni, infognata all'ultimo banco di un'affollata aula universitaria, mentre il mio mentore ci raccontava l'inventiva di questo uomo. E poi le ore passate a studiare sui libri, guardando online quei pochi frammenti della sua filmografia che ci sono rimasti. Scervellarsi per capire quale mente geniale si celasse dietro quest'uomo, che ha reso quell' aggeggio rumoroso un mezzo incredibile per raccontare e affascinare. Per dare spazio all'immaginazione. 

...Scorsese, un po' come tutti quelli che hanno un debito nei confronti di Méliès, ha cercato di restituirne la grandezza. 
Io stessa, in questa manciata di frasi, ho voluto restituire il favore.
Quel favore fatto di meraviglia, di leggerezza, di magia.
Che un po' mi manca, devo essere onesta.